di Roberto Roversi

Presidente nazionale UCCA

La seconda vita dei film

INTRODUZIONE

Quando, ormai otto anni fa, Ucca ideò e iniziò a realizzare questa rassegna itinerante, lo fece con uno scopo ben preciso: dare una seconda possibilità a documentari svisti, o programmati brevemente solo nelle città metropolitane, nonostante i riconoscimenti dei festival internazionali e le recensioni positive della stampa specializzata. Certo, l’elevato costo delle copie in pellicola era un ostacolo alla diffusione massiva delle opere, ma le distribuzioni assicuravano che, con l’imminente passaggio al digitale, si sarebbero aperte ampie praterie per la multiprogrammazione, anche di opere indipendenti. Inutile dire che le cose sono andate diversamente: i contenuti di nicchia hanno trovato sempre meno spazio in sala e L’Italia che non si vede rappresenta oggi spesso la prima vita di un film, quando non addirittura l’unica

Allargando lo sguardo all’intera produzione italiana del 2018, non si intravedono segnali incoraggianti. Se assumiamo che le opere medie siano più sintomatiche dei capolavori, quanto meno per definire lo stato di salute di un’industria creativa come quella cinematografica, è impossibile non notare come la commedia, da sempre il cuore pulsante della filmografia nazionale, continui a dare segni di stanchezza, con modeste performance al box office e una diffusa sensazione di disaffezione del pubblico di riferimento di fronte a prodotti ripetitivi e stereotipati. Lo stesso cinema d’autore, che pure non ha mancato di sorprendere con opere di assoluto valore (ci limitiamo qui a citare Dogman e Lazzaro felice, entrambi premiati a Cannes), sembra legato al lavoro di poche personalità eccentriche e fuori dal coro: siamo insomma ben lontani da una rinascita del cinema italiano, quanto piuttosto di fronte a felici eccezioni alla regola imperante della standardizzazione anche del prodotto ‘di qualità’. Né ci conforta l’analisi dell’intero mercato theatrical nazionale: nel periodo gennaio – ottobre 2018 siamo costretti a registrare una nuova flessione del 7% rispetto allo stesso periodo di riferimento dell’anno precedente. Un dato che, sommato alla brusca contrazione del 2017, fa segnare un calo complessivo che supera il 20% sia in termini di presenze che di incassi: in sostanza, in due anni, abbiamo perso uno spettatore su 5, con pesanti ricadute su un esercizio già stremato. Nell’attesa messianica che la Legge Cinema vada a regime, nella filiera industriale iniziano a percepirsi sinistri scricchiolii che mettono a repentaglio la tenuta dell’intero comparto. Nell’indifferenza generale, cui farà seguito il consueto rimpallo di responsabilità.

Una nota di ottimismo ci viene invece dalla vitalità del cinema del reale, tornato a confrontarsi con i grandi temi sociali che attraversano il Paese e a farsi esplicitamente e orgogliosamente politico. Ed è proprio da questi piccoli, straordinari film che è composta un’edizione di alto profilo de L’Italia che non si vede, che presenta opere invitate ai principali festival internazionali: ben 4 provengono dalla selezione ufficiale della 75^ Mostra del Cinema di Venezia, 2 da Locarno, una dalla Berlinale e una da Cannes, premiata quale miglior documentario del Festival.

Le tematiche, anche quando si rifanno al passato, hanno la caratteristica dell’urgenza e della necessità, figlie di una temperie sociale e culturale che sta imbarbarendo il discorso pubblico del Paese. È il caso dell’inquietante rigurgito razzista che sta alimentando l’ondata di odio rivolta agli esseri più indifesi della società. 1938: Quando scoprimmo di non essere più italiani ci racconta una delle pagine più oscure della nostra storia, ad ottanta anni dalle leggi razziali. E non solo le storie degli ebrei perseguitati, ma anche quelle dei persecutori che approfittarono con entusiasmo della situazione, per finire con uno sguardo allarmato all’avanzata dei movimenti neofascisti di oggi. Analizza invece il periodo ’68-’78 Ora e sempre riprendiamoci la vita, nel quale Silvano Agosti utilizza rari documenti di repertorio per rappresentare le lotte e le conquiste ottenute in quel decennio, contestualizzate anche grazie a preziose interviste a Bernardo Bertolucci, Massimo Cacciari, Dario Fo, Franca Rame, Bruno Trentin e tanti altri intellettuali e politici dell’epoca.

Ancora il ’68 fa da sfondo all’incredibile storia raccontata da Wilma Labate in Arrivederci Saigon, in cui una giovanissima band femminile della provincia toscana, allettata da un improbabile tour in Estremo Oriente, si ritrova con sorpresa e sbigottimento a suonare per tre mesi in basi sperdute del Sud Vietnam per intrattenere le truppe americane in mezzo ai bombardamenti.

Il dramma delle migrazioni e la tragedia che si consuma quotidianamente nel Mediterraneo sono i temi al centro di Iuventa, l’opera di Michele Cinque che documenta il progetto umanitario della ONG Jugend Rettet, animato dallo slancio utopico di un gruppo di giovanissimi tedeschi, dalla prima missione al sequestro della nave con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Una barca è al centro anche de Il clan dei ricciai: quella di Gesuino, disposto ad offrire una possibilità di riscatto agli ex-detenuti cagliaritani, assunti come pescatori per integrarsi nuovamente nella comunità. Il film descrive una vecchia malavita che sta scomparendo, i cui protagonisti raccontano le difficoltà dentro e fuori dal carcere e il loro rapporto coi valori della strada.

Con Le cicale seguiamo invece gli sfratti che colpiscono la parte più fragile dei cittadini romani, gli anziani che versano in difficoltà economiche. Un viaggio intimo nella vita di persone con pensioni risibili, costrette a lottare ancora per sopravvivere di fronte a uno stato sociale sempre più incapace di garantire a tutti una serena ‘età del riposo’. Altri film puntano invece l’attenzione su dolorosi, e irrisolti, conflitti internazionali, allargando il focus della rassegna all’Iraq e alla Striscia di Gaza.

È il caso di Isis Tomorrow, che si sofferma sulle ‘anime perdute di Mosul’, cioè sui figli e le vedove dei combattenti del Califfato. E in particolare sui bambini, facili da indottrinare all’ideologia di Daesh, che ora vivono confinati in campi profughi, avvolti in una spirale di odio, e costituiscono una polveriera pronta ad esplodere nuovamente. Con La strada dei Samouni Stefano Savona ritorna a Gaza dopo che, nel gennaio 2009, l’operazione militare israeliana ‘Piombo fuso’ aveva provocato il massacro di 29 componenti di una famiglia di contadini. Con l’ausilio delle preziose animazioni di Simone Massi, il regista testimonia come i sopravvissuti ricominciano a guardare il futuro, ricostruendo le loro case, il loro quartiere, la loro memoria.

La rassegna sconfina nella fiction con Zen sul ghiaccio sottile, dolente coming of age dell’esordiente Margherita Ferri su un’adolescente inquieta e ombrosa in cerca della propria identità di genere, in una piccola comunità dell’Appennino emiliano che la esclude e la discrimina.

Sono invece le periferie urbane a fare da sfondo a due tra le migliori opere prime della stagione. La terra dell’abbastanza ci ricorda quanto sia facile l’assuefazione al male: un incidente stradale spalanca inaspettatamente a due ragazzi la via alla criminalità organizzata e ai soldi facili. Ma proprio quell’evento casuale li costringerà a prendere inesorabilmente la direzione sbagliata.

Un giorno all’improvviso la vita ti si rovescia contro, ci ricorda Ciro D’Emilio nel suo intenso film d’esordio, in cui un ragazzo costretto a crescere troppo in fretta si prende cura della madre psicologicamente instabile, ossessionata dall’idea di ricostruire l’unità famigliare spezzata dall’abbandono del padre. Un racconto di formazione amaro, senza sconti.

In Sembra mio figlio Costanza Quatriglio racconta la storia del difficile ricongiungimento tra una madre e il figlio, costretto a scappare dall’Afghanistan quando era ancora un bambino a causa delle persecuzione dei talebani ai danni della sua gente, il popolo Hazara. Un accorato apologo sui popoli sradicati, fuggiti da guerre insensate.