Al Gulliver di Alfonsine un film e una mostra per ricordare i 30 anni dalla caduta del muro di Berlino

Davide Guerrini

direttore Cinema Gulliver

Al Gulliver di Alfonsine un film e una mostra per ricordare i 30 anni dalla caduta del muro di Berlino

Il 9 novembre 1989 il ministro della propaganda della DDR annunciò in diretta tv la riapertura delle frontiere, causando una festa istantanea e improvvisata nelle strade in cui per la prima volta i berlinesi dell’est potevano incontrare liberamente quelli della Berlino occidentale, e dando il via alla caduta del muro più famoso della storia, abbattuto non solo dalle ruspe degli operai, ma anche da qualsiasi cittadino dotato di piccone, pronto a compiere un gesto fisico e simbolico, carico di rabbia e di gioia, racchiuso tra la tragedia del passato e la speranza di un futuro migliore. Ed è questa atmosfera unica che si respirava in quei giorni, nella Berlino a cavallo tra il 1989 e il 1990, che viene raccontata con grande attenzione e sensibilità in Die mauer – il muro, documentario diretto dal regista e pittore della DDR Jurgen Bottcher, che sarà proiettato al cinema Arci Gulliver di Alfonsine (RA) giovedì 17 ottobre (con replica il 24), nell’ambito di un evento multi-disciplinare dedicato al trentennale della caduta del muro di Berlino, organizzato da Arci Ravenna e Comune di Alfonsine, che comprende anche interventi critici e una mostra di dieci pannelli corredati di didascalie, documenti, cartine e foto d’epoca, allestiti lungo le pareti del cinema, mostra curata dall’Istituto storico della resistenza e dell’età contemporanea in Ravenna e provincia. Il cinema Gulliver quindi come contenitore di varie suggestioni dedicate a un evento epocale, che viene però ricordato anche con uno sguardo al presente, e ai tanti muri, fisici e mentali, che dividono e lacerano ancora l’umanità.
IL FILM – Gli ultimi giorni del muro di Berlino nel centro della città intorno a Potsdamer Platz e alla Porta di Brandeburgo, in cui lo smantellamento del muro pervade i sensi. Il film più rappresentativo sulla caduta del muro di Berlino in cui le immagini sono mostrate sullo sfondo acustico di macchine edili, masse curiose e l’arrivo inarrestabile dei media.
Die Mauer è uno spaccato degli eventi che coinvolsero la capitale tedesca nell’inverno 1989-1990 che riflette l’anima di Berlino in quei giorni di cambiamento.
LA MOSTRA – Quando il cielo era diviso, che illustra la storia del muro di Berlino all’interno delle più ampie vicende europee tra il 1945 e il 1989, sarà visitabile dal 17 al 28 ottobre, negli orari di apertura del Gulliver, con interventi introduttivi di Nicolò Briccolani (17) e Ilaria Mazzoni (24).

Discorso pubblico e cinema del reale

di Roberto Roversi

Presidente nazionale UCCA

Discorso pubblico e cinema del reale

Sono ormai anni che ci si interroga sul progressivo imbarbarimento del discorso pubblico, inteso come coerente elaborazione intellettuale e progettuale delle problematiche di ordine politico, sociale, culturale che incalzano il nostro paese. La questione è stata ampiamente indagata, assestandosi su alcuni punti fermi difficilmente confutabili. Una prima causa può essere individuata nella progressiva, e apparentemente inarrestabile, perdita di autorevolezza della stampa: in particolare quella quotidiana, più che apportare un significativo contributo al dibattito delle idee, appare espressione di opposte tifoserie politiche, adottando titoli talmente sguaiati che non sfigurerebbero nelle peggiori curve degli stadi italiani. Il giornalismo online è una gara ad accaparrarsi click, senza il minimo ritegno per le foto e i video pubblicati (soft news, risse televisive, scandali), con l’apporto di centinaia di commenti dei lettori (o di troll? o di bot?) violenti ed offensivi.

Ma la maggiore perdita reputazionale è appannaggio della televisione. Il caso più eclatante è quello degli innumerevoli talk-show di cui sono disseminati i palinsesti. Le parole d’ordine sono velocità e ritmo, in modo da non perdere l’attenzione degli spettatori più incostanti: il risultato è una narrazione frammentata, superficiale, continuamente interrotta, senza alcuna possibilità per gli ospiti di inanellare discorsi con una loro compiutezza. Ancora più sorprendente è la pratica di invitare letteralmente le stesse persone a rotazione: ciò che importa non è tanto la presenza di una pluralità di opinioni, ma la fidelizzazione del pubblico nei confronti di alcuni, accuratamente scelti, personaggi pubblici, che come in un gioco di ruolo interpretano se stessi e garantiscono toni concitati e, auspicabilmente, almeno qualche insulto o un accenno di rissa.

E infine, la Rete, l’infinito oceano del web, con la sua appendice più infida, i social network. Nati e subito percepiti come aperti, inclusivi e pluralisti, la quintessenza dell’orizzontalità, hanno in realtà prodotto un coro indistinto di voci, che per farsi
notare nella babele tecnologica hanno dovuto costantemente alzare il volume ed esacerbare i toni, fino all’attuale deriva che ha da tempo sconfinato nel linguaggio d’odio e nella manipolazione dell’opinione pubblica attraverso la disinformazione mirata. Se le aspettative erano quelle di un allargamento della sfera pubblica attraverso la disintermediazione e la partecipazione al dibattito pubblico dei cittadini più informati, possiamo già concludere che si trattava di un wishful thinking. Ci sarebbe da aggiungere il cinema mainstream, ma anche in questo ambito la parola d’ordine è serialità. Nella perdurante perdita di appeal della commedia, storico asso portante della cinematografia nazionale, i film più visti sono sequel, prequel e reboot di supereroi e action movies: escapismo senza pretese.

Fortunatamente esiste un cinema altro, caparbio e cocciuto, che col reale si misura, lo incalza, non si tira indietro di fronte a temi ed argomenti scomodi, si prende i suoi tempi per approfondirli, sviscerarli, ovunque ciò possa portare. Ogni autore col suo stile e il suo registro, le sue ossessioni e le sue visioni: ma si va sempre fino in fondo, non si fanno sconti o compromessi.

Il tema più presente nella rassegna è quello dell’identità di genere, per quanto declinato con diversi toni e sensibilità.
In Normal Adele Tulli compone un flusso di immagini e coreografie della quotidianità, mostrandoci un affresco dei rituali e delle convenzioni che ci accompagnano dalla nascita e a cui quasi non prestiamo più attenzione, articolando una sottile riflessione sulla plasmazione dell’identità di gene- re che ci influenza ad ogni stadio della vita e che crea un’adesione a ruoli prestabiliti.

Se le geometrie cerebrali di Tulli invitano ad un’elaborazione razionale del tema, l’approccio di DicKtatorship di Hofer e Ragazzi è più divertito ed auto-ironico. Il problema del maschilismo e della misoginia in una società ancora di stampo patriarcale sfocia in un road movie sui generis nel quale i registi intervistano sociologi, psicologi, docenti universitari, scrittori, e in cui non mancano le testimonianze di personaggi pubblici quali Laura Boldrini, Michela Murgia e persino Rocco Siffredi. È una donna straordinaria la protagonista de La scomparsa di mia madre, Benedetta Barzini, proto-top-model nella New York della Factory wahroliana, sottrattasi consapevolmente allo stesso sistema capitalista di cui è stata meccanismo per oltre un decennio, poi divenuta giornalista, docente di antropologia della moda, femminista. «La mia faccia non è in vendita», o «la bellezza non è un merito» sono le frasi che pronuncia nello strenuo corpo a corpo che ingaggia con il figlio Beniamino che non accetta di lasciarla sparire.

Anche Dafne è una giovane donna speciale. Affetta da sindrome di Down, si trova ad affrontare lo sfaldamento degli equilibri familiari a seguito dell’improvvisa morte della madre. Ma sarà proprio la sua determinazione, insieme alla sua inesausta vitalità, a strappare il padre dalla depressione, intraprendendo con lui un viaggio fatto di reciproche scoperte e rivelazioni, nel tentativo di guardare avanti. Un film senza pietismi, che esalta la resilienza nascosta nelle persone apparentemente più indifese e fragili.

Sono 4 le donne, di diversa età, estrazione sociale, provenienza che sanno Dove bisogna stare. Che di fronte a situazioni di marginalità e di esclusione non si sono voltate dall’altra parte e portano un aiuto quotidiano ai rifugiati. In un’Italia sempre più ostile all’accoglienza, il loro interventismo evidenzia l’importanza di mettere al centro, sempre, la dignità umana.

Chi invece ci racconta, con infinita malinconia, l’agonia di un simbolo del riscatto industriale dell’Italia post-bellica è Andrea Segre col suo Il pianeta in mare. Il petrolchimico di Marghera, che ha rappresentato l’emancipazione per moltissimi operai, ma è stato anche la causa di una altissima percentuale di mortalità per gli abitanti del luogo, è divenuto un emblema delle prime lotte operaie che hanno posto al centro dell’attenzione il tema della sicurezza e dell’ambiente.

È malinconico e disincantato, e certamente depresso, anche lo sguardo di Franco Maresco ne La mafia non è più quella di una volta, verso i minuscoli individui di eccezionale vigliaccheria che derubricano Falcone e Borsellini a miti svuotati. Accompagnato dalla fotografa e militante antimafia Letizia Battaglia, il regista palermitano usa la sua consueta cifra stilistica, l’umorismo nero, per raccontare «una tragedia in corso – la mafia – di cui non si parla più, se non nelle fiction». Meritato Premio Speciale della Giuria a Venezia.

La legalità è il tema centrale anche di Selfie, nel quale Agostino Ferrente torna in un luogo ormai trasfigurato dall’immaginario televisivo (e cinematografico) quale sono le periferie violente di Napoli, superando gli stereotipi e affidando il racconto all’auto-rappresentazione della vita quoti- diana di due ragazzi “normali” (uno lavora presso un bar, l’altro vuole diventare parrucchiere), che non fanno parte di alcuna ‘gang,’ e questo, al rione Traiano, appare quasi un gesto rivoluzionario. Con Che fare quando il mondo è in fiamme? Roberto Minervini continua la sua denuncia delle piaghe e delle rovine del suo paese di adozione, spostandosi in Louisiana, nel profondo sud dell’America conservatrice e razzista e infiltrandosi in una comunità scossa da una serie di omicidi di giovani afro-americani per mano della polizia. Nascere, conoscere, viaggiare, abitare e rinascere sono i 5 capitoli in cui è suddiviso Amaranto, il suggestivo saggio incentrato su stili di vita, educativi ed alimentari, alternativi a quelli del modello consumistico corrente. Creazione artistica e allo stesso tempo operazione di militanza, avallata da- gli interventi di alcuni importanti filosofi e attivisti, tra cui Serge Latouche, il film racconta scelte di vita consapevoli, mosse dalla volontà di contribuire attivamente al bene comune, diventando così simbolo di una nuova resistenza possibile.

E infine, Se c’è un aldilà sono fottuto è l’accorato omaggio al regista di culto Claudio Caligari. Il film testimonia la sua passione divorante per il cinema, la sua totale intransigenza e la maledizione nel trovare i finanziamenti per le sue sceneggiature. Ricco di materiali inediti d’archivio e di testimonianze toccanti (da Mastandrea a Giallini, da Borghi a Marinelli, da Moretti a Ferreri), il film si chiude durante il montaggio di Non essere cattivo con una delle sue tipiche frasi lapidarie: «Muoio come uno stronzo e ho fatto solo 2 film». La grande uscita di scena del beautiful loser del cinema italiano.

‘La scomparsa di mia madre’ di Beniamino Barrese

di Chiara Malerba

Presidenza UCCA

‘La scomparsa di mia madre’ di Beniamino Barrese

Potrebbe capitarvi di vedere il sole oscurarsi e anche le stelle. Doveste mai notare un abbassamento generico di luce, beh non abbiate paura di quella gigantesca materia che lentamente ascende a occupare tutto lo spazio visivo dell’orizzonte, il cielo e ogni cosa; potrebbe sembrare una specie di pallone aerostatico immenso, non lo so, comunque vi ci abituerete.

Non sono gli alieni, non sono mostri alati, non è la fine del mondo. È soltanto la mia infinita, indescrivibile ammirazione per Benedetta Barzini per la sua smisurata, titanica personalità; è soltanto lo sconfinato entusiasmo che dona la visione de La scomparsa di mia madre, Premio Ucca L’Italia che non si vede all’ultima edizione del Biografilm Festival, ora candidato agli EFA (European Film Award) e unico film italiano in concorso al Sundance.

Non ditemi che dovrei spiegarvi cosa può esserci di interessante in questo film, in uscita in un nutrito manipolo di sale d’essai il prossimo 10 ottobre (se riuscite a zigzagare Joker forse riuscite addirittura a vederlo). Un documentario che racconta una donna che fa tutto bello. Un’opera prima, urgente, che emoziona e commuove.

Splendida, su un personaggio splendido. Forse dovrei scrivere di quanto sia bello entusiasmarsi e farsi trascinare per terra, nella ghiaia, da una storia ben raccontata. Una storia che parte da una persona e finisce col raccontarti la vita.

Una storia d’amore tra un figlio e una madre. Un amore a volte lacerante e straziante. E una partita, che si gioca con le carte della coerenza, del sacrificio e della rinuncia. Il documentario di Beniamino Barrese si inserisce in questa traiettoria.

Ha il talento (e il coraggio) di lavorare di fino sulla rabbia d’attesa e sulle reazioni di sfogo, sui sentimenti e sulle passioni. E lo fa con la stessa forza con cui all’epoca, il Cassavates di Volti spaccò il cuore a chi ancora ne aveva uno. Insomma, tutta quella roba lì, che c’è scritta sulla locandina -«Tenero e impetuoso», «Benedetta Barzini è una delle grandi donne del nostro tempo» – è vera. Andate a vedere questo film, e ditelo agli amici: farete del bene a voi stessi, e al cinema italiano.

A Carbonia, il cinema del reale di ‘How to film the world’

Maria Luisa Brizio

Walter Ciani

Gabriella Denisi

A Carbonia, il cinema del reale di ‘How to film the world’

Da giovedì 10 al 13 ottobre Carbonia ha accolto, fra gli altri, quattro giovani (e meno giovani) ‘ucchini’ inviati a partecipare al programma di How to film the world, un percorso cinematografico all’insegna della scoperta del cinema del reale: Maria Luisa Brizio e Walter Ciani dall’associazione Altera di Torino, Gabriella Denisi e Luca Ciriello, reduci dell’ultima edizione di FILMaP, l’Atelier di Cinema del Reale, organizzato da Arci Movie di Ponticelli. Ossia noi che vi raccontiamo quelle giornate: la prima, con un interminabile viaggio in pullman-aereo-treno-macchina (o a piedi per Gabriella, o in autostop per Luca), ci fa toccare con mano il senso etimologico della parola ‘isolamento’ e procura ai torinesi un effetto jet-lag che sparisce solo il venerdì mattina. L’altra faccia della medaglia è, invece, il desiderio di ‘connessione’ e in poco tempo ci siamo già immersi nel programma di How to film the world, che si dimostra, fin dal principio, molto interessante, con la proposta di creare un dialogo tra giovani studenti e operatori con una realtà cinematografica sul racconto del contemporaneo.

Il programma si muove su diversi piani, utilizzando diverse forme di linguaggio cinematografico per raccontare il mondo a noi contemporaneo. I film presentati e gli autori coinvolti sono molto differenti l’uno dall’altro: dal racconto frammentato, e particolarmente sonoro, di Ballata in Minore del sardo Giuseppe Casu, al realismo magico della siriana Soudade Kadaan con i suoi Aziza e The day I lost My Shadow, proseguendo poi con il documentario immersivo su un gruppo paramilitare in Slovacchia When the war comes di Jan Gebert; Aperti al pubblico di Silvia Bellotti e Non può essere sempre estate di Margherita Panizon e Sabrina Iannucci, realizzati a Napoli, seguiti dalla commedia Bangla, opera prima del giovane regista Phaim Bhuiyan. E ancora, La Mafia non è più quella di una volta di Franco Maresco ed Effetto domino di Alessandro Rossetto, concludono le proiezioni di questi giorni.

E in parallelo ai film, le masterclass: gli esperti del settore invitati hanno tenuto un confronto diretto con il pubblico, raccontando le proprie esperienze e, in particolar modo, le differenti realtà cinematografiche dei paesi di origine. A tal proposito, è stato significativo l’intervento di Soudade Kaadan, che ha raccontato delle difficoltà del cinema d’autore e documentaristico in Siria, e di come la distruzione causata dalla guerra abbia generato paesaggi che vengono sfruttati come set per le produzioni cinematografiche libanesi e straniere, tanto da far nascere una iniziativa di boicottaggio. Antonella Di Nocera, responsabile delle produzioni di FILMaP, ha analizzato lo stato del quartiere di Ponticelli di Napoli, diventato anch’esso un set a cielo aperto, in cui emergono le contraddizioni tra rappresentazione cinematografica esasperata (vedi Gomorra e simili) e le difficoltà reali delle persone che vivono il quartiere, per cui è necessario un racconto onesto e concreto della realtà. Edoardo Morabito, montatore e regista, ha espresso le proprie opinioni per quanto riguarda il montaggio di film documentari, in cui realtà e finzione spesso sono indistinguibili.

Gli appuntamenti cinematografici inoltre sono stati efficacemente legati alla storia e alla cultura della città, a partire dalla loro sede di svolgimento, la Fabbrica del cinema di Carbonia: luogo ricco di storia e di cambiamenti, inizialmente sede degli uffici amministrativi delle miniere di carbone, successivamente occupata e usata abusivamente a scopo abitativo, per trasformarsi infine in importante sede cinematografica. Utilizzare gli spazi per funzioni diverse da quelle per cui sono stati progettati, conservando le tracce dei cambiamenti intervenuti ma non per questo ‘congelando’ la storia del luogo, è quanto di meglio si possa fare per costruire un’identità viva e consapevole nella comunità che li anima. Oltre a una mediateca fornitissima, si ha libero accesso anche alla visione dell’archivio homemovie ‘La tua memoria è la nostra storia’, un incredibile lavoro di digitalizzazione di pellicole di privati cittadini, un recupero e una restituzione della memoria di un’intera comunità.

Al di là degli incontri programmati e pubblici, l’organizzazione di How to film the world ha realizzato alcune attività dirette ai partecipanti selezionati del Carbonia cinema giovani per creare un gruppo in grado di collaborare e sentirsi a proprio agio nell’esprimere la propria passione per il cinema. Ed è proprio qui che si trova il valore aggiunto dell’esperienza, nell’incontro con gli appartenenti al gruppo Carbonia cinema giovani: è sempre motivante riconoscersi, da diverse parti d’Italia, accomunati dalla passione per il cinema del reale e dalla curiosità di confrontarsi. E anche un po’, per essere onesti, dalla voglia di andare in spiaggia per l’ultimo bagno della stagione, ad ottobre, o ritrovarsi insieme ad ascoltare un imprevedibile Bob Corn o a ballare scatenati al dj set di Godblesscomputer.

‘L’età giovane’ dei fratelli Dardenne

di Sabrina Milani

Coordinatrice UCCA

‘L’età giovane’ dei fratelli Dardenne

Il giovane Ahmed, impropriamente tradotto con L’età giovane, ci mostra poco più che un bambino, che i fratelli Dardenne ‘tallonano’ fino all’orlo dell’abisso nel quale sprofonda. Sgombriamo subito il campo da possibili dubbi, questo non è un film islamofobo, è una storia di fanatismo religioso, fenomeno che accomuna tutte le fedi che professano una purezza, una verità assoluta che divide il mondo a metà, alcuni dentro, altri tragicamente fuori.

Conosciamo Ahmed già ‘fanatizzato’ e insofferente a tutto il suo background di riferimento: una Liegi laica, dove le terze generazioni di migranti sono cittadini integrati, una madre lavoratrice, che si concede un bicchiere di vino, una sorella che veste all’occidentale e un padre debole che non riesce a mantenere l’ordine in casa. In questo contesto Ahmed sviluppa l’ossessione di uccidere la propria insegnante, per ristabilire la purezza che non trova più.

Tutti intorno a lui cercano in modi diversi di mostrargli la devianza dei suoi comportamenti: in primis i suoi compagni di fede, poi i suoi familiari, i suoi insegnanti. Ma in Ahmed non c’è alcun conflitto, perché non ha antagonisti, non subisce l’ascendente dell’Imam moderato né della ragazzina che tenta di rubargli un bacio per essere respinta in nome della religione.

L’estremismo di Ahmed è la trasposizione estrema del sentire dell’adolescenza, che percepisce con intensità così invincibile i propri convincimenti da risultare fatale.

Al via la decima edizione del Modena ViaEmili@DocFest

di Massimo Bondioli,

Presidenza Nazionale Ucca

Al via la decima edizione del Modena ViaEmili@DocFest

Decima edizione del Modena Viaemili@docfest. Un compleanno significativo per il festival, nato nel 2010 con l’obiettivo di far conoscere il cinema documentario al più vasto pubblico possibile attraverso il concorso online, il primo in Italia, e un fuori concorso in sala per un reale coinvolgimento del pubblico.

In questi dieci anni il mondo è molto cambiato e il virtuale è entrato in modo massiccio nelle vite delle persone. Sorge quindi spontanea la domanda:«È ancora utile o necessario un concorso di documentari online?». La risposta è convinta: sì, anzi è sempre più necessario un luogo virtuale di approfondimento e conoscenza di ciò che ci capita intorno attraverso lo sguardo artistico, poetico ma critico dei registi italiani. Ed è in questo contesto che abbiamo deciso già nel 2018 di affiancare, al concorso principale, una sezione rivolta alle scuole italiane di cinema, sempre più fucine di promettenti e attenti registe e registi. Per i ‘fuori concorso’ presentati in sala proponiamo una selezione di documentari usciti nell’ultimo anno e presentati nei maggiori festival e, per la prima volta, abbiamo volto lo sguardo oltre i confini italiani.
Come per l’anno precedente proponiamo alcuni percorsi tematici: giovedì 7 il focus sulle migrazioni (in collaborazione proprio con il Festival della Migrazione) con le due anteprime regionali: The valley di Nuno Escudeiro e Ghiaccio di Tomaso Claviero, entrambi ambientati nelle vallate del Piemonte (in contemporanea con il Festival dei Popoli con cui collaboriamo). È un’anteprima regionale anche il nuovo lavoro di Cristiano Regina Baladì. This is my village ambientato in Palestina.
Venerdì 8 novembre, oltre alla finale del concorso internazionale Meglio matti che corti, dedicato alla cultura dell’inclusione, della sensibilizzazione e di lotta al pregiudizio, nella salute mentale, è la volta del focus sulla storia, con due film che trattano poeticamente i diari di militari e cittadini che hanno vissuto la guerra sotto lo stato italiano: Il varco dei registi Federico Ferrone e Michele Manzolini e Scherza con i fanti di Gianfranco Pannone e Ambrogio Sparagna.
Sabato 9 e domenica 10 infine il festival volge al femminile. Donne davanti alla macchina: la piccola Marisol dell’omonimo film di Camilla Iannetti, la grande fotografa Letizia Battaglia nel film a lei dedicato Letizia Battaglia – Shooting the mafia della regista inglese Kim Longinotto (in collaborazione con Libera), la modella icona degli anni ’60 Benedetta Barzini protagonista del film La scomparsa di mia madre di Beniamino Barrese, le politiche Manuela Ghizzoni e Daniela Depietri nel film I had a dream di Claudia Tosi e ancora la pugile Irma Testa nel film Butterfly di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman. E donne dietro la macchina come Francesca Ragusa in prima assoluta con il suo ultimo film Ave, mater dolorosa!
Film di chiusura l’anteprima di Why are we creative? del regista tedesco Hermann Vaske organizzata in collaborazione con il Festival della Laicità.
Momento importante del festival è la presentazione ufficiale del catalogo U.C.C.A. (Unione Circoli Cinematografici Arci) L’Italia che non si vede, rassegna itinerante che presenta undici piccoli, straordinari film invitati ai principali festival internazionali.
Anche per questa edizione il festival è parte integrante del corso di alta formazione Storytelling immersivo e interattivo: metodi e tecniche per il racconto audiovisivo del reale. Finanziato dalla Regione Emilia Romagna, organizzato da Formodena in collaborazione con UniMoRe, D.E-R, Fondazione Marco Biagi e Arci Modena. Attenzione verso le scuole cittadine, in particolare per l’IPSIA Corni che presenta il nuovo lavoro realizzato all’interno del progetto Cinema per la Scuola, realizzato nell’ambito del Piano Nazionale Cinema per la Scuola promosso da MiBACT e MIUR.

Arci Movie e la rimozione su facebook

ARCI MOVIE

Arci Movie e la rimozione su facebook

Arci Movie ci riprova: per la terza volta in pochi mesi, lo storico circolo Ucca, che proprio in questi giorni festeggia la trentesima edizione del cineforum al Pierrot di Ponticelli (NA), inaugura una nuova pagina facebook. Suo malgrado, perché, per contenuti che secondo gli operatori del social network ‘violano la dichiarazione dei diritti e delle responsabilità di facebook’, la storica pagina di Arci Movie con oltre 10mila followers è stata rimossa l’8 luglio scorso, e quella creata successivamente è stata chiusa poco tempo dopo. 

Tra i contenuti incriminati, post con foto degli studenti di FILMaP, Atelier di cinema del reale che dal 2014 Arci Movie organizza a Ponticelli, del servizio civile nazionale a cui l’associazione partecipa con propri progetti dal 2001, di attività cinematografiche che Arci Movie organizza in luoghi simboli del napoletano come il Cinema Pierrot, il Cinema Astra o l’Arena di San Giorgio a Cremano. Insomma, contenuti originali o in ogni caso non inneggianti all’odio o alla violenza, come sempre più spesso capita, nella totale indifferenza, nell’enorme prateria dei social. 

Inutili i tentativi di contatto con la società o l’invio di documentazione che attesti la correttezza di qualunque pubblicazione. Ma se non c’è due senza tre, Arci Movie torna su facebook con la pagina@arcimovie, speriamo stavolta in maniera definitiva.

Parasite, Palma d’Oro a Cannes

di Lorenzo Carangelo

Consiglio nazionale UCCA

Parasite, Palma d’Oro a Cannes

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La famiglia Kim (composta dal padre Ki-taek, la mamma Chung-sook e i figli Ki-woo e Ki-jung) vive di espedienti in un seminterrato fatiscente di Seul, occupando il tempo con piccoli lavoretti e con qualche truffa, lasciandosi alle spalle decine di avventure imprenditoriali fallite.

Il precario equilibrio familiare viene rotto da Min, giovane universitario che – causa trasferimento all’estero – chiede all’amico Ki-woo di sostituirlo come tutor d’inglese della figlia dei Park, una ricca famiglia che vive in un elegante villino dotato di ogni lusso, governante inclusa.

Il ragazzo si presenta alla lezione di prova con un curriculum contraffatto e riesce ad ottenere la fiducia di Yeon-kyo, moglie del signor Park, interpretata magistralmente da una Cho Yeo-jeong perfettamente a suo agio nel ruolo della ‘semplice’ e cortese padrona di casa, di una bellezza desolante quanto la compassione che genera. Rapidamente, con strategie di volta in volta più complesse ma comunque originali, l’intera famiglia di truffatori entrerà nelle grazie della famiglia Park.

Bong Joon-ho – che, oltre alla regia, firma anche soggetto, co-produzione e sceneggiatura, quest’ultima a quattro mani con Han Jin-won – riesce a creare un amalgama di generi sorprendente: Parasite ha il ritmo di un thriller magistrale ed è divertente come una commedia esemplare, pur senza rinunciare a momenti di eccezionale drammaticità. Come se non bastasse, tutto il film è attraversato da un’aspra critica sociale, espressa senza nessuna banalità in un linguaggio contemporaneo, nitido, comprensibile anche a chi conosce il significato della parola Tinder.

Parasite, premiato a Cannes con una meritata Palma d’Oro, conferma l’ottimo stato di salute del K-Cinema contemporaneo e si candida a diventare una delle migliori pellicole del decennio.

Nell’opera del regista coreano, i meccanismi essenziali della narrazione cinematografica trovano una combinazione tanto lucida da apparire disarmante. Nell’arco dei primi dieci minuti, tutti i personaggi sono chiaramente identificati in una personalità compiuta, la trama è coinvolgente e le regole del gioco sono chiare. La cura dei dettagli è maniacale e perfino la colonna sonora riserva sorprese.

Fino all’inaspettato momento di svolta, carico di una suspense che definire angosciante è un eufemismo, lo spettatore sembra essere cosciente dell’intero sviluppo della storia. Se pensiamo solo alla dicotomia tra il seminterrato dei Kim e la villa dei Park, è evidente che la fotografia – inevitabilmente in contrasto con se stessa – delimita uno spettro di colori coerente ed omogeneo.

Nel film non c’è nessun antagonista e nessun eroe. Tutti i personaggi sono pezzi inconsapevoli di una scacchiera di cui non conoscono le regole. In un contesto del genere, chi è l’intruso? Chi è il parassita?

Come si fa ad odiare i coniugi Park, nonostante diano dei nomi ai loro domestici come se fossero animali da compagnia? I loro comportamenti, le loro orrende riflessioni, i loro perversi meccanismi mentali sono frutto di una scelta consapevole? Al contrario, come è possibile non empatizzare con la famiglia Kim, ritratto umano di una società individualista che vive perennemente con un enorme masso sullo stomaco?

E infine: pur senza disprezzare nessuno di loro, è possibile assolverli dalle rispettive colpe?

La nostalgia del riso umano di Franco Maresco

di Roberto D’Avascio,

presidente Arci Movie

consigliere nazionale Ucca

Il film della settimana – La nostalgia del riso umano di Franco Maresco

A sorpresa è arrivato un premio a Venezia anche per Franco Maresco, il più cinico tra i registi in concorso quest’anno, e provocatoriamente assente in laguna alla presentazione ufficiale del suo film. La mafia non è più quella di una volta non è un film di denuncia socio-politica sulle tristezze del sotto-proletariato siciliano o sulla trattativa che arriva a lambire l’integrità della famiglia Mattarella, né un’opera di satira sui beceri costumi e le discutibili opinioni dei nostri connazionali meridionali; si tratta, credo, di un film nostalgico, nel senso letterale della parola, come indica lo stesso titolo, che fa sorridere ma che va preso molto sul serio. Ma la categoria della nostalgia, intrisa di una cifra quasi melodrammatica, non ha niente a che fare con la mafia e con le sue pratiche violente, ma si riferisce chiaramente ad un mondo – quello raccontato per tanti anni in Cinico Tv su Rai 3 – che è in una fase di profonda trasformazione.
Franco Maresco, che ha raccontato questo mondo anche al cinema con Daniele Ciprì in pellicole esteticamente paradigmatiche in tal senso come Lo zio di Brooklyn, Totò che visse due volte e Il ritorno di Cagliostro, sembra essere consapevole di questo momento di passaggio e sembra provare la più grande nostalgia.

Un equivoco di fondo avvolge da sempre questo cinema del cinismo, della depravazione, dell’orrido e consiste nel ritenere che la materia trattata – quei corpi sfatti, quel ruttare in diretta, quelle scene di sesso mostruosamente sbrindellate, la defecazione come massima azione scenica – sia distante dall’occhio del regista, che accentuerebbe la violenza di tali immagini per denunciarne la miseria umana e far indignare maggiormente lo spettatore. Sfugge a questo ragionamento il fatto che Franco Maresco non prende le distanze dalla sua materia filmica, anzi si avvicina sempre di più – si è sempre avvicinato di più – fino a diventarne parte integrante per annullarsi in essa. In tante scene di Cinico Tv la sua voce arriva sui suoi personaggi spesso mostruosi, nelle discariche, negli scheletri di palazzi non finiti, per le strade di periferie cittadine che sembrano essere state appena bombardate, ed avvolge tutto, quasi con affetto.

Maresco ama e difende questo mondo cinico, il suo universo estetico, la sua Sicilia pasoliniana oscillante tra la riflessione crudele di Artaud e la narrazione brulicante di ossessioni e oscenità di Céline. In questi giorni è apparso, sulla rivista FilmTv, una delle più belle esperienze editoriali degli ultimi trent’anni per chi ama il cinema, un magistrale articolo di apertura di Antonio Rezza, un funambolo dell’arte che negli ultimi anni ha incrociato, con sapienza sperimentale, il cinema, la televisione, il teatro e la letteratura mettendo al centro della sua ricerca estetica le potenzialità deformanti di un corpo espressionista. Rezza ha scritto di Franco Maresco, del suo rapporto con il regista siciliano e della stima indiscussa per il suo lavoro. Io credo che Antonio Rezza abbia colto la grandezza dell’arte di Maresco e la specificità estetica del suo orrore, una Sicilia fatta di corpi allo sbaraglio in cui tutto è così «assurdo e irresistibilmente comico che la repulsione si trasforma in attrazione letale».

Questo è il passaggio decisivo per comprendere l’universo di Cinico Tv, l’amore dello sguardo di Franco Maresco e la nostalgia per una sofferenza che sta cambiando. Il pubblico in sala, nel vedere La mafia non è più quella di una volta ha riso di tale sofferenza, ma come scrive Antonio Rezza «è il riso che scatena tanta sofferenza». Un circolo vizioso da cui non si può uscire. Come non si può uscire dall’universo delle schifezze umane di Mafia Man, del grasso Paviglianiti, del truce Rocco Cane o degli inquietanti fratelli Abbate.

Il cinema contemporaneo di Franco Maresco è letteralmente un viaggio al termine della notte, per riprendere, forse con troppa sfacciata faciloneria, il titolo di una famoso romanzo del Novecento, è il grido anarchico di rivolta di personaggi mostruosamente umani – forse troppo umani; è un macrotesto filmico in cui farsa e tragedia non possono che mescolarsi e confondersi in continuazione. Un’allucinazione che nasce nella realtà per poi trasfigurarsi in immagini senza sconti e senza compromessi.E tuttavia, dicevamo, quest’ultima opera di Franco Maresco è carica soprattutto di nostalgia. Ciccio Mira prova a ripulirsi in manifestazioni antimafia, nella sporcizia delle inquadrature arriva la fotografa Letizia Battaglia, i tempi stanno cambiando. Inesorabilmente. Questo film, come ha suggerito Rezza, «è qualcosa che annulla la speranza» rispetto a Belluscone – Una storia siciliana. La speranza del ridere come «malvagità pura». Continuando a pensare, come ha profeticamente detto una volta Maresco, che «in ogni uomo, anche nel migliore, si nasconde sempre un gran pezzo di merda».

Perché il gratis ha vinto (e il cinema italiano è contento)

di Robert Bernocchi,

data and business analyst

Perché il gratis ha vinto (e il cinema italiano è contento)

Da ormai alcuni anni, tra i maggiori eventi di cinema in estate (ma non solo) ci sono alcune arene gratuite.

Non c’è dubbio che presentare la nuova versione di Apocalypse Now alla presenza di Francis Ford Coppola, come ha fatto il Cinema ritrovato di Bologna, sia un evento di portata mondiale. Così come è bellissimo far vedere Il Conformista a Piazza San Cosimato con Stefania Sandrelli, che poi ne discute con il pubblico.

Stiamo solo parlando di due dei tanti eventi che hanno contrassegnato queste manifestazioni, così come è impossibile dimenticare la miriade di festival e di arene estive gratuite che fanno una ricca programmazione.

E senza trascurare il ricordo della sciagurata iniziativa del mercoledì a due euro, che ha svenduto il cinema di prima visione per sei mesi. I Cinema Days a 3 euro non generano ovviamente gli stessi problemi (anche per il loro carattere più occasionale, non più di due volte all’anno), ma questa insistenza sul prezzo basso e ‘popolare’ non aiuta molto a mandare il messaggio che il cinema per vivere e prosperare abbia bisogno di un prezzo adeguato (che rimane molto popolare, rispetto ad altre forme di intrattenimento).

Si è parlato spesso del fatto che queste manifestazioni (se sono gratuite) non proiettano film recentissimi. Ma qui a mio avviso si cade in un errore tipico di noi addetti ai lavori, che pensiamo che le nostre abitudini, ossia vedere tanti film appena escono in sala, siano la norma. La realtà è che molto spesso un film gratuito di tre anni fa per la stragrande maggioranza del pubblico è inedito e che quindi, nel confronto con un altrettanto inedito (anche se più recente, ma a pagamento) film che esce in sala, è facile ed economicamente conveniente preferire il primo.

Ma il problema, in realtà, non sono tanto queste manifestazioni, che una volta definita questa missione, spesso la portano avanti benissimo (‘Piazza San Cosimato’ e ‘Il Cinema ritrovato’ senza dubbio lo fanno).

Il punto veramente preoccupante è la visione che larga parte del cinema italiano (non solo attori e registi, quindi il lato più ‘artistico’, ma anche produttori importanti) ha di questi eventi. Il mantra che tutti ripetono è che servono per formare il pubblico (in particolare, i giovani) e per spingerlo ad abbracciare il grande schermo, con conseguenze positive anche sul consumo ‘a pagamento’.

Ma se l’obiettivo è ‘formare il pubblico’, si conferma che il nostro ambiente ha una visione del mercato un po’ complicata. Intanto, con l’idea stessa di ‘educare il pubblico’, che francamente è già molto discutibile e poco in linea con qualsiasi legge di marketing, che vorrebbe che si vada incontro ai desideri del pubblico (o, quando si è particolarmente innovativi, vendere qualcosa che il pubblico ancora non sa di volere).

Il discorso è semplice: vogliamo convincerlo così il sedicenne, facendogli capire quanto lo disprezziamo (lui e le sue abitudini, che devono cambiare per renderlo una persona migliore e ‘degno’ di vedere il cinema che amiamo)? E che valore diamo al cinema noi addetti ai lavori? Da una parte, sosteniamo che sia qualcosa di fondamentale per l’individuo, che unisce le persone, che le rende migliori. Insomma, qualcosa di straordinario e meraviglioso, che non ha eguali.

D’altro canto, non solo accettiamo che sia gratis, ma anzi riteniamo che l’offerta gratuita sia qualcosa di positivo. Ma come facciamo a trasmettere al pubblico l’idea che qualcosa di gratuito abbia un grande valore, se noi per primi ci ‘vergogniamo’ di chiedere un prezzo sostenibile e siamo orgogliosi di qualsiasi iniziativa gratuita? Siamo sicuri che, così facendo, non stiamo ‘formando’ sì un pubblico, ma che è portato sempre di più a vedere eventi culturali gratuiti o quasi?

Ma torniamo al punto vero: il discorso del ‘gratis che crea un pubblico pagante’ non regge e lo dicono, molto semplicemente, i dati. Sì, lo so, al cinema italiano piace molto di più parlare delle sue impressioni, ma ogni tanto le cifre ci servono per distinguere la realtà dalle nostre fantasie.

E le cifre dicono che i biglietti venduti nelle sale italiane sono a livelli molto bassi almeno dal 2017 (sotto i 100 milioni di biglietti da quel momento e si rischia che questo avvenga anche nel 2019). Ora, io non arrivo a dire che tra le tante proposte gratuite e la diminuzione di ingressi a pagamento ci sia un rapporto diretto. Ma sicuramente non è più sopportabile sentir dire che il cinema gratis crea consumatori a pagamento e aumenta la loro frequentazione della sale tradizionali.

Perché, semplicemente, i biglietti sono in diminuzione e a livelli bassi da tre anni, quindi questa (molto presunta) influenza positiva non esiste, se non nell’immaginazione utopistica di qualcuno, che ovviamente non si preoccupa minimamente di trovare prove oggettive al suo discorso.

E dove proprio non si vede un’influenza positiva è nel cinema d’autore. In effetti, le rassegne che riempiono la penisola, soprattutto d’estate, dovrebbero servire a ridestare l’amore del pubblico per il cinema meno ‘massificato’ e ‘blockbusterizzato’. Sfido chiunque a fornirmi dei dati positivi in questo senso, a cominciare dalla situazione delle case di distribuzione e delle sale che si occupano di cinema d’essai. Almeno, quelle che ancora non hanno chiuso i battenti…

Ucca ringrazia sentitamente l’autore per la gentile concessione.

Per la lettura dell’intervento integrale si invita a visitare https://cineguru.screenweek.it