Sono ormai anni che ci si interroga sul progressivo imbarbarimento del discorso pubblico, inteso come coerente elaborazione intellettuale e progettuale delle problematiche di ordine politico, sociale, culturale che incalzano il nostro paese. La questione è stata ampiamente indagata, assestandosi su alcuni punti fermi difficilmente confutabili. Una prima causa può essere individuata nella progressiva, e apparentemente inarrestabile, perdita di autorevolezza della stampa: in particolare quella quotidiana, più che apportare un significativo contributo al dibattito delle idee, appare espressione di opposte tifoserie politiche, adottando titoli talmente sguaiati che non sfigurerebbero nelle peggiori curve degli stadi italiani. Il giornalismo online è una gara ad accaparrarsi click, senza il minimo ritegno per le foto e i video pubblicati (soft news, risse televisive, scandali), con l’apporto di centinaia di commenti dei lettori (o di troll? o di bot?) violenti ed offensivi.
Ma la maggiore perdita reputazionale è appannaggio della televisione. Il caso più eclatante è quello degli innumerevoli talk-show di cui sono disseminati i palinsesti. Le parole d’ordine sono velocità e ritmo, in modo da non perdere l’attenzione degli spettatori più incostanti: il risultato è una narrazione frammentata, superficiale, continuamente interrotta, senza alcuna possibilità per gli ospiti di inanellare discorsi con una loro compiutezza. Ancora più sorprendente è la pratica di invitare letteralmente le stesse persone a rotazione: ciò che importa non è tanto la presenza di una pluralità di opinioni, ma la fidelizzazione del pubblico nei confronti di alcuni, accuratamente scelti, personaggi pubblici, che come in un gioco di ruolo interpretano se stessi e garantiscono toni concitati e, auspicabilmente, almeno qualche insulto o un accenno di rissa.
E infine, la Rete, l’infinito oceano del web, con la sua appendice più infida, i social network. Nati e subito percepiti come aperti, inclusivi e pluralisti, la quintessenza dell’orizzontalità, hanno in realtà prodotto un coro indistinto di voci, che per farsi
notare nella babele tecnologica hanno dovuto costantemente alzare il volume ed esacerbare i toni, fino all’attuale deriva che ha da tempo sconfinato nel linguaggio d’odio e nella manipolazione dell’opinione pubblica attraverso la disinformazione mirata. Se le aspettative erano quelle di un allargamento della sfera pubblica attraverso la disintermediazione e la partecipazione al dibattito pubblico dei cittadini più informati, possiamo già concludere che si trattava di un wishful thinking. Ci sarebbe da aggiungere il cinema mainstream, ma anche in questo ambito la parola d’ordine è serialità. Nella perdurante perdita di appeal della commedia, storico asso portante della cinematografia nazionale, i film più visti sono sequel, prequel e reboot di supereroi e action movies: escapismo senza pretese.
Fortunatamente esiste un cinema altro, caparbio e cocciuto, che col reale si misura, lo incalza, non si tira indietro di fronte a temi ed argomenti scomodi, si prende i suoi tempi per approfondirli, sviscerarli, ovunque ciò possa portare. Ogni autore col suo stile e il suo registro, le sue ossessioni e le sue visioni: ma si va sempre fino in fondo, non si fanno sconti o compromessi.
Il tema più presente nella rassegna è quello dell’identità di genere, per quanto declinato con diversi toni e sensibilità.
In Normal Adele Tulli compone un flusso di immagini e coreografie della quotidianità, mostrandoci un affresco dei rituali e delle convenzioni che ci accompagnano dalla nascita e a cui quasi non prestiamo più attenzione, articolando una sottile riflessione sulla plasmazione dell’identità di gene- re che ci influenza ad ogni stadio della vita e che crea un’adesione a ruoli prestabiliti.
Se le geometrie cerebrali di Tulli invitano ad un’elaborazione razionale del tema, l’approccio di DicKtatorship di Hofer e Ragazzi è più divertito ed auto-ironico. Il problema del maschilismo e della misoginia in una società ancora di stampo patriarcale sfocia in un road movie sui generis nel quale i registi intervistano sociologi, psicologi, docenti universitari, scrittori, e in cui non mancano le testimonianze di personaggi pubblici quali Laura Boldrini, Michela Murgia e persino Rocco Siffredi. È una donna straordinaria la protagonista de La scomparsa di mia madre, Benedetta Barzini, proto-top-model nella New York della Factory wahroliana, sottrattasi consapevolmente allo stesso sistema capitalista di cui è stata meccanismo per oltre un decennio, poi divenuta giornalista, docente di antropologia della moda, femminista. «La mia faccia non è in vendita», o «la bellezza non è un merito» sono le frasi che pronuncia nello strenuo corpo a corpo che ingaggia con il figlio Beniamino che non accetta di lasciarla sparire.
Anche Dafne è una giovane donna speciale. Affetta da sindrome di Down, si trova ad affrontare lo sfaldamento degli equilibri familiari a seguito dell’improvvisa morte della madre. Ma sarà proprio la sua determinazione, insieme alla sua inesausta vitalità, a strappare il padre dalla depressione, intraprendendo con lui un viaggio fatto di reciproche scoperte e rivelazioni, nel tentativo di guardare avanti. Un film senza pietismi, che esalta la resilienza nascosta nelle persone apparentemente più indifese e fragili.
Sono 4 le donne, di diversa età, estrazione sociale, provenienza che sanno Dove bisogna stare. Che di fronte a situazioni di marginalità e di esclusione non si sono voltate dall’altra parte e portano un aiuto quotidiano ai rifugiati. In un’Italia sempre più ostile all’accoglienza, il loro interventismo evidenzia l’importanza di mettere al centro, sempre, la dignità umana.
Chi invece ci racconta, con infinita malinconia, l’agonia di un simbolo del riscatto industriale dell’Italia post-bellica è Andrea Segre col suo Il pianeta in mare. Il petrolchimico di Marghera, che ha rappresentato l’emancipazione per moltissimi operai, ma è stato anche la causa di una altissima percentuale di mortalità per gli abitanti del luogo, è divenuto un emblema delle prime lotte operaie che hanno posto al centro dell’attenzione il tema della sicurezza e dell’ambiente.
È malinconico e disincantato, e certamente depresso, anche lo sguardo di Franco Maresco ne La mafia non è più quella di una volta, verso i minuscoli individui di eccezionale vigliaccheria che derubricano Falcone e Borsellini a miti svuotati. Accompagnato dalla fotografa e militante antimafia Letizia Battaglia, il regista palermitano usa la sua consueta cifra stilistica, l’umorismo nero, per raccontare «una tragedia in corso – la mafia – di cui non si parla più, se non nelle fiction». Meritato Premio Speciale della Giuria a Venezia.
La legalità è il tema centrale anche di Selfie, nel quale Agostino Ferrente torna in un luogo ormai trasfigurato dall’immaginario televisivo (e cinematografico) quale sono le periferie violente di Napoli, superando gli stereotipi e affidando il racconto all’auto-rappresentazione della vita quoti- diana di due ragazzi “normali” (uno lavora presso un bar, l’altro vuole diventare parrucchiere), che non fanno parte di alcuna ‘gang,’ e questo, al rione Traiano, appare quasi un gesto rivoluzionario. Con Che fare quando il mondo è in fiamme? Roberto Minervini continua la sua denuncia delle piaghe e delle rovine del suo paese di adozione, spostandosi in Louisiana, nel profondo sud dell’America conservatrice e razzista e infiltrandosi in una comunità scossa da una serie di omicidi di giovani afro-americani per mano della polizia. Nascere, conoscere, viaggiare, abitare e rinascere sono i 5 capitoli in cui è suddiviso Amaranto, il suggestivo saggio incentrato su stili di vita, educativi ed alimentari, alternativi a quelli del modello consumistico corrente. Creazione artistica e allo stesso tempo operazione di militanza, avallata da- gli interventi di alcuni importanti filosofi e attivisti, tra cui Serge Latouche, il film racconta scelte di vita consapevoli, mosse dalla volontà di contribuire attivamente al bene comune, diventando così simbolo di una nuova resistenza possibile.
E infine, Se c’è un aldilà sono fottuto è l’accorato omaggio al regista di culto Claudio Caligari. Il film testimonia la sua passione divorante per il cinema, la sua totale intransigenza e la maledizione nel trovare i finanziamenti per le sue sceneggiature. Ricco di materiali inediti d’archivio e di testimonianze toccanti (da Mastandrea a Giallini, da Borghi a Marinelli, da Moretti a Ferreri), il film si chiude durante il montaggio di Non essere cattivo con una delle sue tipiche frasi lapidarie: «Muoio come uno stronzo e ho fatto solo 2 film». La grande uscita di scena del beautiful loser del cinema italiano.