‘L’età giovane’ dei fratelli Dardenne

di Sabrina Milani

Coordinatrice UCCA

‘L’età giovane’ dei fratelli Dardenne

Il giovane Ahmed, impropriamente tradotto con L’età giovane, ci mostra poco più che un bambino, che i fratelli Dardenne ‘tallonano’ fino all’orlo dell’abisso nel quale sprofonda. Sgombriamo subito il campo da possibili dubbi, questo non è un film islamofobo, è una storia di fanatismo religioso, fenomeno che accomuna tutte le fedi che professano una purezza, una verità assoluta che divide il mondo a metà, alcuni dentro, altri tragicamente fuori.

Conosciamo Ahmed già ‘fanatizzato’ e insofferente a tutto il suo background di riferimento: una Liegi laica, dove le terze generazioni di migranti sono cittadini integrati, una madre lavoratrice, che si concede un bicchiere di vino, una sorella che veste all’occidentale e un padre debole che non riesce a mantenere l’ordine in casa. In questo contesto Ahmed sviluppa l’ossessione di uccidere la propria insegnante, per ristabilire la purezza che non trova più.

Tutti intorno a lui cercano in modi diversi di mostrargli la devianza dei suoi comportamenti: in primis i suoi compagni di fede, poi i suoi familiari, i suoi insegnanti. Ma in Ahmed non c’è alcun conflitto, perché non ha antagonisti, non subisce l’ascendente dell’Imam moderato né della ragazzina che tenta di rubargli un bacio per essere respinta in nome della religione.

L’estremismo di Ahmed è la trasposizione estrema del sentire dell’adolescenza, che percepisce con intensità così invincibile i propri convincimenti da risultare fatale.

Al via la decima edizione del Modena ViaEmili@DocFest

di Massimo Bondioli,

Presidenza Nazionale Ucca

Al via la decima edizione del Modena ViaEmili@DocFest

Decima edizione del Modena Viaemili@docfest. Un compleanno significativo per il festival, nato nel 2010 con l’obiettivo di far conoscere il cinema documentario al più vasto pubblico possibile attraverso il concorso online, il primo in Italia, e un fuori concorso in sala per un reale coinvolgimento del pubblico.

In questi dieci anni il mondo è molto cambiato e il virtuale è entrato in modo massiccio nelle vite delle persone. Sorge quindi spontanea la domanda:«È ancora utile o necessario un concorso di documentari online?». La risposta è convinta: sì, anzi è sempre più necessario un luogo virtuale di approfondimento e conoscenza di ciò che ci capita intorno attraverso lo sguardo artistico, poetico ma critico dei registi italiani. Ed è in questo contesto che abbiamo deciso già nel 2018 di affiancare, al concorso principale, una sezione rivolta alle scuole italiane di cinema, sempre più fucine di promettenti e attenti registe e registi. Per i ‘fuori concorso’ presentati in sala proponiamo una selezione di documentari usciti nell’ultimo anno e presentati nei maggiori festival e, per la prima volta, abbiamo volto lo sguardo oltre i confini italiani.
Come per l’anno precedente proponiamo alcuni percorsi tematici: giovedì 7 il focus sulle migrazioni (in collaborazione proprio con il Festival della Migrazione) con le due anteprime regionali: The valley di Nuno Escudeiro e Ghiaccio di Tomaso Claviero, entrambi ambientati nelle vallate del Piemonte (in contemporanea con il Festival dei Popoli con cui collaboriamo). È un’anteprima regionale anche il nuovo lavoro di Cristiano Regina Baladì. This is my village ambientato in Palestina.
Venerdì 8 novembre, oltre alla finale del concorso internazionale Meglio matti che corti, dedicato alla cultura dell’inclusione, della sensibilizzazione e di lotta al pregiudizio, nella salute mentale, è la volta del focus sulla storia, con due film che trattano poeticamente i diari di militari e cittadini che hanno vissuto la guerra sotto lo stato italiano: Il varco dei registi Federico Ferrone e Michele Manzolini e Scherza con i fanti di Gianfranco Pannone e Ambrogio Sparagna.
Sabato 9 e domenica 10 infine il festival volge al femminile. Donne davanti alla macchina: la piccola Marisol dell’omonimo film di Camilla Iannetti, la grande fotografa Letizia Battaglia nel film a lei dedicato Letizia Battaglia – Shooting the mafia della regista inglese Kim Longinotto (in collaborazione con Libera), la modella icona degli anni ’60 Benedetta Barzini protagonista del film La scomparsa di mia madre di Beniamino Barrese, le politiche Manuela Ghizzoni e Daniela Depietri nel film I had a dream di Claudia Tosi e ancora la pugile Irma Testa nel film Butterfly di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman. E donne dietro la macchina come Francesca Ragusa in prima assoluta con il suo ultimo film Ave, mater dolorosa!
Film di chiusura l’anteprima di Why are we creative? del regista tedesco Hermann Vaske organizzata in collaborazione con il Festival della Laicità.
Momento importante del festival è la presentazione ufficiale del catalogo U.C.C.A. (Unione Circoli Cinematografici Arci) L’Italia che non si vede, rassegna itinerante che presenta undici piccoli, straordinari film invitati ai principali festival internazionali.
Anche per questa edizione il festival è parte integrante del corso di alta formazione Storytelling immersivo e interattivo: metodi e tecniche per il racconto audiovisivo del reale. Finanziato dalla Regione Emilia Romagna, organizzato da Formodena in collaborazione con UniMoRe, D.E-R, Fondazione Marco Biagi e Arci Modena. Attenzione verso le scuole cittadine, in particolare per l’IPSIA Corni che presenta il nuovo lavoro realizzato all’interno del progetto Cinema per la Scuola, realizzato nell’ambito del Piano Nazionale Cinema per la Scuola promosso da MiBACT e MIUR.

Arci Movie e la rimozione su facebook

ARCI MOVIE

Arci Movie e la rimozione su facebook

Arci Movie ci riprova: per la terza volta in pochi mesi, lo storico circolo Ucca, che proprio in questi giorni festeggia la trentesima edizione del cineforum al Pierrot di Ponticelli (NA), inaugura una nuova pagina facebook. Suo malgrado, perché, per contenuti che secondo gli operatori del social network ‘violano la dichiarazione dei diritti e delle responsabilità di facebook’, la storica pagina di Arci Movie con oltre 10mila followers è stata rimossa l’8 luglio scorso, e quella creata successivamente è stata chiusa poco tempo dopo. 

Tra i contenuti incriminati, post con foto degli studenti di FILMaP, Atelier di cinema del reale che dal 2014 Arci Movie organizza a Ponticelli, del servizio civile nazionale a cui l’associazione partecipa con propri progetti dal 2001, di attività cinematografiche che Arci Movie organizza in luoghi simboli del napoletano come il Cinema Pierrot, il Cinema Astra o l’Arena di San Giorgio a Cremano. Insomma, contenuti originali o in ogni caso non inneggianti all’odio o alla violenza, come sempre più spesso capita, nella totale indifferenza, nell’enorme prateria dei social. 

Inutili i tentativi di contatto con la società o l’invio di documentazione che attesti la correttezza di qualunque pubblicazione. Ma se non c’è due senza tre, Arci Movie torna su facebook con la pagina@arcimovie, speriamo stavolta in maniera definitiva.

Parasite, Palma d’Oro a Cannes

di Lorenzo Carangelo

Consiglio nazionale UCCA

Parasite, Palma d’Oro a Cannes

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La famiglia Kim (composta dal padre Ki-taek, la mamma Chung-sook e i figli Ki-woo e Ki-jung) vive di espedienti in un seminterrato fatiscente di Seul, occupando il tempo con piccoli lavoretti e con qualche truffa, lasciandosi alle spalle decine di avventure imprenditoriali fallite.

Il precario equilibrio familiare viene rotto da Min, giovane universitario che – causa trasferimento all’estero – chiede all’amico Ki-woo di sostituirlo come tutor d’inglese della figlia dei Park, una ricca famiglia che vive in un elegante villino dotato di ogni lusso, governante inclusa.

Il ragazzo si presenta alla lezione di prova con un curriculum contraffatto e riesce ad ottenere la fiducia di Yeon-kyo, moglie del signor Park, interpretata magistralmente da una Cho Yeo-jeong perfettamente a suo agio nel ruolo della ‘semplice’ e cortese padrona di casa, di una bellezza desolante quanto la compassione che genera. Rapidamente, con strategie di volta in volta più complesse ma comunque originali, l’intera famiglia di truffatori entrerà nelle grazie della famiglia Park.

Bong Joon-ho – che, oltre alla regia, firma anche soggetto, co-produzione e sceneggiatura, quest’ultima a quattro mani con Han Jin-won – riesce a creare un amalgama di generi sorprendente: Parasite ha il ritmo di un thriller magistrale ed è divertente come una commedia esemplare, pur senza rinunciare a momenti di eccezionale drammaticità. Come se non bastasse, tutto il film è attraversato da un’aspra critica sociale, espressa senza nessuna banalità in un linguaggio contemporaneo, nitido, comprensibile anche a chi conosce il significato della parola Tinder.

Parasite, premiato a Cannes con una meritata Palma d’Oro, conferma l’ottimo stato di salute del K-Cinema contemporaneo e si candida a diventare una delle migliori pellicole del decennio.

Nell’opera del regista coreano, i meccanismi essenziali della narrazione cinematografica trovano una combinazione tanto lucida da apparire disarmante. Nell’arco dei primi dieci minuti, tutti i personaggi sono chiaramente identificati in una personalità compiuta, la trama è coinvolgente e le regole del gioco sono chiare. La cura dei dettagli è maniacale e perfino la colonna sonora riserva sorprese.

Fino all’inaspettato momento di svolta, carico di una suspense che definire angosciante è un eufemismo, lo spettatore sembra essere cosciente dell’intero sviluppo della storia. Se pensiamo solo alla dicotomia tra il seminterrato dei Kim e la villa dei Park, è evidente che la fotografia – inevitabilmente in contrasto con se stessa – delimita uno spettro di colori coerente ed omogeneo.

Nel film non c’è nessun antagonista e nessun eroe. Tutti i personaggi sono pezzi inconsapevoli di una scacchiera di cui non conoscono le regole. In un contesto del genere, chi è l’intruso? Chi è il parassita?

Come si fa ad odiare i coniugi Park, nonostante diano dei nomi ai loro domestici come se fossero animali da compagnia? I loro comportamenti, le loro orrende riflessioni, i loro perversi meccanismi mentali sono frutto di una scelta consapevole? Al contrario, come è possibile non empatizzare con la famiglia Kim, ritratto umano di una società individualista che vive perennemente con un enorme masso sullo stomaco?

E infine: pur senza disprezzare nessuno di loro, è possibile assolverli dalle rispettive colpe?

La nostalgia del riso umano di Franco Maresco

di Roberto D’Avascio,

presidente Arci Movie

consigliere nazionale Ucca

Il film della settimana – La nostalgia del riso umano di Franco Maresco

A sorpresa è arrivato un premio a Venezia anche per Franco Maresco, il più cinico tra i registi in concorso quest’anno, e provocatoriamente assente in laguna alla presentazione ufficiale del suo film. La mafia non è più quella di una volta non è un film di denuncia socio-politica sulle tristezze del sotto-proletariato siciliano o sulla trattativa che arriva a lambire l’integrità della famiglia Mattarella, né un’opera di satira sui beceri costumi e le discutibili opinioni dei nostri connazionali meridionali; si tratta, credo, di un film nostalgico, nel senso letterale della parola, come indica lo stesso titolo, che fa sorridere ma che va preso molto sul serio. Ma la categoria della nostalgia, intrisa di una cifra quasi melodrammatica, non ha niente a che fare con la mafia e con le sue pratiche violente, ma si riferisce chiaramente ad un mondo – quello raccontato per tanti anni in Cinico Tv su Rai 3 – che è in una fase di profonda trasformazione.
Franco Maresco, che ha raccontato questo mondo anche al cinema con Daniele Ciprì in pellicole esteticamente paradigmatiche in tal senso come Lo zio di Brooklyn, Totò che visse due volte e Il ritorno di Cagliostro, sembra essere consapevole di questo momento di passaggio e sembra provare la più grande nostalgia.

Un equivoco di fondo avvolge da sempre questo cinema del cinismo, della depravazione, dell’orrido e consiste nel ritenere che la materia trattata – quei corpi sfatti, quel ruttare in diretta, quelle scene di sesso mostruosamente sbrindellate, la defecazione come massima azione scenica – sia distante dall’occhio del regista, che accentuerebbe la violenza di tali immagini per denunciarne la miseria umana e far indignare maggiormente lo spettatore. Sfugge a questo ragionamento il fatto che Franco Maresco non prende le distanze dalla sua materia filmica, anzi si avvicina sempre di più – si è sempre avvicinato di più – fino a diventarne parte integrante per annullarsi in essa. In tante scene di Cinico Tv la sua voce arriva sui suoi personaggi spesso mostruosi, nelle discariche, negli scheletri di palazzi non finiti, per le strade di periferie cittadine che sembrano essere state appena bombardate, ed avvolge tutto, quasi con affetto.

Maresco ama e difende questo mondo cinico, il suo universo estetico, la sua Sicilia pasoliniana oscillante tra la riflessione crudele di Artaud e la narrazione brulicante di ossessioni e oscenità di Céline. In questi giorni è apparso, sulla rivista FilmTv, una delle più belle esperienze editoriali degli ultimi trent’anni per chi ama il cinema, un magistrale articolo di apertura di Antonio Rezza, un funambolo dell’arte che negli ultimi anni ha incrociato, con sapienza sperimentale, il cinema, la televisione, il teatro e la letteratura mettendo al centro della sua ricerca estetica le potenzialità deformanti di un corpo espressionista. Rezza ha scritto di Franco Maresco, del suo rapporto con il regista siciliano e della stima indiscussa per il suo lavoro. Io credo che Antonio Rezza abbia colto la grandezza dell’arte di Maresco e la specificità estetica del suo orrore, una Sicilia fatta di corpi allo sbaraglio in cui tutto è così «assurdo e irresistibilmente comico che la repulsione si trasforma in attrazione letale».

Questo è il passaggio decisivo per comprendere l’universo di Cinico Tv, l’amore dello sguardo di Franco Maresco e la nostalgia per una sofferenza che sta cambiando. Il pubblico in sala, nel vedere La mafia non è più quella di una volta ha riso di tale sofferenza, ma come scrive Antonio Rezza «è il riso che scatena tanta sofferenza». Un circolo vizioso da cui non si può uscire. Come non si può uscire dall’universo delle schifezze umane di Mafia Man, del grasso Paviglianiti, del truce Rocco Cane o degli inquietanti fratelli Abbate.

Il cinema contemporaneo di Franco Maresco è letteralmente un viaggio al termine della notte, per riprendere, forse con troppa sfacciata faciloneria, il titolo di una famoso romanzo del Novecento, è il grido anarchico di rivolta di personaggi mostruosamente umani – forse troppo umani; è un macrotesto filmico in cui farsa e tragedia non possono che mescolarsi e confondersi in continuazione. Un’allucinazione che nasce nella realtà per poi trasfigurarsi in immagini senza sconti e senza compromessi.E tuttavia, dicevamo, quest’ultima opera di Franco Maresco è carica soprattutto di nostalgia. Ciccio Mira prova a ripulirsi in manifestazioni antimafia, nella sporcizia delle inquadrature arriva la fotografa Letizia Battaglia, i tempi stanno cambiando. Inesorabilmente. Questo film, come ha suggerito Rezza, «è qualcosa che annulla la speranza» rispetto a Belluscone – Una storia siciliana. La speranza del ridere come «malvagità pura». Continuando a pensare, come ha profeticamente detto una volta Maresco, che «in ogni uomo, anche nel migliore, si nasconde sempre un gran pezzo di merda».

Perché il gratis ha vinto (e il cinema italiano è contento)

di Robert Bernocchi,

data and business analyst

Perché il gratis ha vinto (e il cinema italiano è contento)

Da ormai alcuni anni, tra i maggiori eventi di cinema in estate (ma non solo) ci sono alcune arene gratuite.

Non c’è dubbio che presentare la nuova versione di Apocalypse Now alla presenza di Francis Ford Coppola, come ha fatto il Cinema ritrovato di Bologna, sia un evento di portata mondiale. Così come è bellissimo far vedere Il Conformista a Piazza San Cosimato con Stefania Sandrelli, che poi ne discute con il pubblico.

Stiamo solo parlando di due dei tanti eventi che hanno contrassegnato queste manifestazioni, così come è impossibile dimenticare la miriade di festival e di arene estive gratuite che fanno una ricca programmazione.

E senza trascurare il ricordo della sciagurata iniziativa del mercoledì a due euro, che ha svenduto il cinema di prima visione per sei mesi. I Cinema Days a 3 euro non generano ovviamente gli stessi problemi (anche per il loro carattere più occasionale, non più di due volte all’anno), ma questa insistenza sul prezzo basso e ‘popolare’ non aiuta molto a mandare il messaggio che il cinema per vivere e prosperare abbia bisogno di un prezzo adeguato (che rimane molto popolare, rispetto ad altre forme di intrattenimento).

Si è parlato spesso del fatto che queste manifestazioni (se sono gratuite) non proiettano film recentissimi. Ma qui a mio avviso si cade in un errore tipico di noi addetti ai lavori, che pensiamo che le nostre abitudini, ossia vedere tanti film appena escono in sala, siano la norma. La realtà è che molto spesso un film gratuito di tre anni fa per la stragrande maggioranza del pubblico è inedito e che quindi, nel confronto con un altrettanto inedito (anche se più recente, ma a pagamento) film che esce in sala, è facile ed economicamente conveniente preferire il primo.

Ma il problema, in realtà, non sono tanto queste manifestazioni, che una volta definita questa missione, spesso la portano avanti benissimo (‘Piazza San Cosimato’ e ‘Il Cinema ritrovato’ senza dubbio lo fanno).

Il punto veramente preoccupante è la visione che larga parte del cinema italiano (non solo attori e registi, quindi il lato più ‘artistico’, ma anche produttori importanti) ha di questi eventi. Il mantra che tutti ripetono è che servono per formare il pubblico (in particolare, i giovani) e per spingerlo ad abbracciare il grande schermo, con conseguenze positive anche sul consumo ‘a pagamento’.

Ma se l’obiettivo è ‘formare il pubblico’, si conferma che il nostro ambiente ha una visione del mercato un po’ complicata. Intanto, con l’idea stessa di ‘educare il pubblico’, che francamente è già molto discutibile e poco in linea con qualsiasi legge di marketing, che vorrebbe che si vada incontro ai desideri del pubblico (o, quando si è particolarmente innovativi, vendere qualcosa che il pubblico ancora non sa di volere).

Il discorso è semplice: vogliamo convincerlo così il sedicenne, facendogli capire quanto lo disprezziamo (lui e le sue abitudini, che devono cambiare per renderlo una persona migliore e ‘degno’ di vedere il cinema che amiamo)? E che valore diamo al cinema noi addetti ai lavori? Da una parte, sosteniamo che sia qualcosa di fondamentale per l’individuo, che unisce le persone, che le rende migliori. Insomma, qualcosa di straordinario e meraviglioso, che non ha eguali.

D’altro canto, non solo accettiamo che sia gratis, ma anzi riteniamo che l’offerta gratuita sia qualcosa di positivo. Ma come facciamo a trasmettere al pubblico l’idea che qualcosa di gratuito abbia un grande valore, se noi per primi ci ‘vergogniamo’ di chiedere un prezzo sostenibile e siamo orgogliosi di qualsiasi iniziativa gratuita? Siamo sicuri che, così facendo, non stiamo ‘formando’ sì un pubblico, ma che è portato sempre di più a vedere eventi culturali gratuiti o quasi?

Ma torniamo al punto vero: il discorso del ‘gratis che crea un pubblico pagante’ non regge e lo dicono, molto semplicemente, i dati. Sì, lo so, al cinema italiano piace molto di più parlare delle sue impressioni, ma ogni tanto le cifre ci servono per distinguere la realtà dalle nostre fantasie.

E le cifre dicono che i biglietti venduti nelle sale italiane sono a livelli molto bassi almeno dal 2017 (sotto i 100 milioni di biglietti da quel momento e si rischia che questo avvenga anche nel 2019). Ora, io non arrivo a dire che tra le tante proposte gratuite e la diminuzione di ingressi a pagamento ci sia un rapporto diretto. Ma sicuramente non è più sopportabile sentir dire che il cinema gratis crea consumatori a pagamento e aumenta la loro frequentazione della sale tradizionali.

Perché, semplicemente, i biglietti sono in diminuzione e a livelli bassi da tre anni, quindi questa (molto presunta) influenza positiva non esiste, se non nell’immaginazione utopistica di qualcuno, che ovviamente non si preoccupa minimamente di trovare prove oggettive al suo discorso.

E dove proprio non si vede un’influenza positiva è nel cinema d’autore. In effetti, le rassegne che riempiono la penisola, soprattutto d’estate, dovrebbero servire a ridestare l’amore del pubblico per il cinema meno ‘massificato’ e ‘blockbusterizzato’. Sfido chiunque a fornirmi dei dati positivi in questo senso, a cominciare dalla situazione delle case di distribuzione e delle sale che si occupano di cinema d’essai. Almeno, quelle che ancora non hanno chiuso i battenti…

Ucca ringrazia sentitamente l’autore per la gentile concessione.

Per la lettura dell’intervento integrale si invita a visitare https://cineguru.screenweek.it

‘La scomparsa di mia madre’ vince il Premio Ucca L’Italia che non si vede

BIOGRAFILM

di Roberto Roversi

‘La scomparsa di mia madre’ vince il Premio Ucca L’Italia che non si vede

È stata un’edizione ricchissima e intensa, la 15^ del Biografilm Festival – International Celebration of Lives che si è appena conclusa a Bologna.

I numeri sono impressionanti: 109 i film presentati, 73 le anteprime nazionali, 27 le opere prime, oltre 150 gli ospiti italiani e internazionali, tra cui vanno segnalati almeno un maestro del cinema contemporaneo quale Werner Herzog e l’attore forse più iconico del cinema francese, Fabrice Luchini.

Restando ai numeri, è il 3° anno consecutivo che Ucca è partner del Festival bolognese, dove tiene il proprio Consiglio nazionale (quest’anno sdoppiato in due lunghe sessioni per il numero e la complessità dei temi all’ordine del giorno) e soprattutto assegna un premio ufficiale al miglior documentario italiano, destinato ad entrare nella prossima rassegna itinerante L’Italia che non si vede.

All’interno di una sezione stimolante, composta di 10 titoli inediti per il nostro Paese, la giuria Ucca, formata da Chiara Malerba, Sabrina Milani e Angela Petruzzelli, ha optato all’unanimità per La scomparsa di mia madre di Beniamino Barrese, che aveva avuto la sua prima mondiale al Sundance nello scorso gennaio.

Il film ritrae Benedetta Barzini, uno dei volti più significativi della moda italiana e internazionale degli anni Sessanta, a 75 anni, stanca dei ruoli in cui la vita l’ha costretta e decisa a lasciare tutto per raggiungere un luogo lontano, dove non essere mai più trovata.

Cresciuta in una famiglia dell’alta borghesia milanese (il padre Luigi era inviato del Corriere della Sera, la madre era Giannalisa Feltrinelli), esordisce nella moda in modo assolutamente casuale, venendo notata in una via di Roma dalla direttrice di Vogue Italia. È sufficiente l’invio di una fotografia alla casa madre a New York, all’attenzione della caporedattrice Diana Vreeland, per iniziare, a vent’anni, la carriera di modella con un servizio fotografico di Irving Penn.

Avrebbe dovuto restare 10 giorni, vi rimane 5 anni. Un lustro in cui, davanti all’obiettivo di Bert Stern e Richard Avedon, con il suo volto segnato, antico, diventa la sofisticata interprete di quel look esotico-mediterraneo che tanto piaceva agli americani, diventando top model di tutti i massimi fashion-brand dell’epoca e instaurando rapporti di amicizia con Andy Warhol e Salvador Dalì.

Ma questa è solo la prima vita di Benedetta Barzini.

Nonostante il successo, l’insoddisfazione di essere considerata solo una pretty face è già presente nel suo animo. «È stato a quel punto che ho capito che la bellezza è una seccatura». Rientrata in Italia negli anni Settanta, lascia l’attività di modella, diventa attivista dell’estrema sinistra e inizia a lottare per l’uguaglianza di genere e contro la mercificazione del corpo femminile. Inizia una carriera di giornalista militante e, a partire dagli anni Novanta, insegna antropologia della moda con un approccio radicalmente femminista e anticapitalistico. «Perché l’imperfezione dà tanto fastidio?», la sentiamo chiedere ai suoi studenti universitari (in maggioranza donne) in una scena del documentario.

Per questo il figlio Beniamino Barrese vuole realizzare un film su di lei, che possa tramandarne la memoria, ma anche aiutarla ad afferrare la libertà che cerca, nel tentativo di ritrovare sua madre e insieme di lasciarla andare. Paradossalmente di testimoniare con una videocamera il suo rifiuto di quelle immagini che l’hanno accompagnata, inseguita e spesso perseguitata.

Un film che vive su questa dialettica e trova i suoi momenti più riusciti proprio nell’ incontro/scontro, spigoloso e delicato, tra un figlio e una madre.

Un’opera emozionante, che va ad aggiungersi ad altri titoli importanti già selezionati per l’edizione 2019/20 dell’Italia che non si vede, da Normal di Adele Tulli, a Selfie di Agostino Ferrente a Dafne di Federico Bondi, tre film presentati con successo all’ultima Berlinale.

Venezia 76, tra Joker e Caligari

VENEZIA 76

di Antonio Borrelli,

vicepresidente Ucca

Venezia 76, tra Joker e Caligari

In un’offerta ampia ed eterogenea, due opere hanno lasciato una traccia importante

La Mostra del Cinema di Venezia si avvia verso la chiusura di questa 76esima edizione che sta registrando un’affluenza di pubblico incredibile, indice del grande lavoro di riposizionamento sullo scenario internazionale, curato dal Direttore Alberto Barbera.

In un’offerta come sempre ampia ed eterogenea, con una particolare attenzione anche al cinema del reale, due opere hanno lasciato una traccia importante, molto diverse, realizzate con risorse agli antipodi e con fini opposti, ma che, forse, presentano qualche elemento di comunanza.

Si tratta del film evento Joker di Todd Philips e del documentario Se c’è un’aldilà sono fottuto di Simone Isola e Fausto Trombetta. Cosa possono mai avere in comune un’opera hollywoodiana con budget milionario e un’altra indipendente su uno degli artisti più sfortunati del cinema italiano?

Partiamo da Joker. C’era una grandissima attesa, cresciuta sempre più sia per le notizie che provenivano dal set, sia per la scelta di utilizzare uno degli attori più versatili e talentuosi dei nostri tempi come Joaquin Phoenix. Soprattutto, però, l’hype era generata dall’idea di focalizzarsi du uno dei villain più attraenti di tutta la storia dei fumetti, quel Joker proveniente dall’universo di Batman, raccontatoci in passato da autori del calibro di Tim Burton e Christopher Nolan.

Insomma, la pressione sulle spalle di Phillips e di Phoenix era tanta e in molti erano pronti a un crudele cecchinaggio alla prima esitazione.

Invece, Joker si è rivelato un film di rara profondità, un anomalo cinecomics che incrocia una tortuosa strada autoriale, scegliendo l’attenzione su un dispositivo narrativo classico, ma curato in ogni dettaglio.

La Gotham City del film è una città meno cupa di quelle viste in passato, molto vicina ad una New York degli anni ’70, in cui l’oscurità sembra nascere e crescere con la progressiva emarginazione sociale, che relega sullo sfondo chi non è in grado di reggere il ritmo di un mondo spietato.

Arthur Fleck è un disadattato che prova a sbarcare il lunario lavorando come clown per un’agenzia, in attesa di poter presentare al pubblico i suoi numeri da cabarettista. Arthur ha grandi problemi psichiatrici, avrebbe bisogno di essere aiutato e sostenuto, ma la solitudine e la miseria della sua esistenza finiranno per essere acuite e portate all’estremo da una società malata ed egoistica, fino poi ad una esplosione psicotica incontrollabile.

É così che il seme della follia finisce per germogliare in un contesto sociale di marginalizzazione dell’individuo, dove le tensioni sono palesi e la rabbia collettiva monta fino poi a liberarsi senza freni e oltre ogni regola nell’escalation finale.

Un plauso enorme va a Joaquin Phoenix e al suo fragile, umano e oscuro Joker, un’interpretazione eccellente, non solo per il famoso ghigno conosciuto dalla notte dei tempi, ma soprattutto per la capacità di rendere alla perfezione le molteplici sfaccettature di un’anima fragile e in pena che entra progressivamente in un tunnel senza uscita. Tirando le somme, siamo dalla parte del Leone d’Oro o giù di lì.

Di tutt’altro tenore il racconto commosso della vita di Claudio Caligari in Se c’è un aldilà sono fottuto. Isola e Trombetta sono riusciti a mettere su un impianto narrativo che punta al cuore, spostandosi avanti e indietro nel tempo a partire dal backstage dell’ultimo set diretto dal grande autore piemontese, quello di Non essere cattivo, visto a Venezia nel 2015, colpevolmente ‘fuori concorso’, 3 mesi dopo la scomparsa di Caligari. Un grande affresco corale chiama in causa coloro che hanno lavorato con lui, che lo stimavano e che gli erano vicini, a partire dal compianto Marco Ferreri, da Marco Risi e dal figlio putativo Valerio Mastandrea, che tiene le file della narrazione.

Il documentario ci porta così dentro il lungo percorso del cineasta di Arona, cominciato negli anni ’70 con l’enorme interesse per i movimenti di protesta e la sua infinita curiosità nell’approcciarsi alla parte più sporca, grezza, ma, al tempo stesso, forse più pura della società, per costruire una sua personale poetica di matrice pasoliniana.

Emerge in questo modo un ritratto di una persona colta e riservata, con un grande sconfinato amore per il cinema e coerente fino in fondo con le proprie idee e propri valori. Contemporaneamente risalta anche la grande ipocrisia che imperversa in quello stesso mondo del cinema di cui Caligari faceva parte.

Dopo la scandalo del crudo Amore tossico, presentato a Venezia nel 1983, anche con grande riscontro di critica e diversi premi, Caligari fu, infatti, vittima di una censura senza precedenti, che di fatto gli impedì di realizzare almeno altri 10-15 film, con la conseguenza che, alla fine, il suo lascito si ferma a soli tre film.

Un boicottaggio diffuso, a causa del quale, in pratica, il settore della produzione cinematografica finì per mettere al bando uno dei più importanti autori di quei tempi, pregiudicandone in modo irreparabile la carriera.

É proprio in questo aspetto del film che c’è un richiamo alla vicenda di Arthur Fleck, almeno per quel che concerne la marginalizzazione sociale di cui entrambi sono vittima in maniera feroce.

Anche se poi, nel caso del personaggio dei Dc Comics, ciò porta alla pazzia e alla costruzione di una sua nuova normalità, una ‘rinascita’ nel segno della violenza più efferata, mentre nella vicenda di Caligari, invece, la conseguenza è una dolorosa rimozione della sua figura dal panorama cinematografico italiano, che il grande regista accetta quasi come se fosse un destino ineluttabile al quale andare incontro.

Mondovisioni e L’Italia che non si vede: rassegne itineranti a Piacenza con Ucca e Internazionale

RASSEGNE

di Piero Verani

MONDOVISIONI E L’ITALIA CHE NON SI VEDE: RASSEGNE ITINERANTI A PIACENZA CON UCCA E INTERNAZIONALE

Piacenza aspetta l’arena cinematografica estiva con una serie di film in prima visione. Selezionati dalle rassegne Mondovisioni – I documentari di Internazionale e L’Italia che non si vede di Ucca, gli otto film in programma costituiscono un’occasione importante per sensibilizzare le persone su temi di stretta attualità e mettere al centro la sala come luogo principe per la fruizione cinematografica in un’epoca nella quale appare sempre più difficile far uscire di casa le persone per guardare un film, se non si tratta di Checco Zalone o degli Avengers.

L’iniziativa si inserisce nel progetto Gioia al Cinema del Liceo ‘Melchiorre Gioia’ di Piacenza, scuola con oltre 1500 studenti tra gli indirizzi classico, linguistico e scientifico, ed è sostenuto da fondi del Miur e del Mibac attraverso una bando pubblico. L’associazione Cinemaniaci ha collaborato alla progettazione puntando all’esperienza della visione in gruppo.

In cartellone abbiamo inserito storie che gettano luce, senza troppi filtri, su tematiche che ci riguardano da vicino, su un’Europa e un mondo pieni di contraddizioni: dalla riflessione su una parola fondamentale come ‘democrazia’ al viaggio in uno dei paesi più profondamente in crisi, il Venezuela, dalla corrispondenza di due reporter del Sunday Times nella Siria annichilita dalle bombe al ricordo della guerra del Vietnam, dalle pericolose onde nel Mediterraneo al degrado sociale delle periferie, dagli Usa alla Norvegia… si tratta di un percorso narrativo legato a doppio filo con l’impegno civile. Tra i tanti prodotti di grande interesse, va segnalato l’unico film di finzione in programma: Un giorno all’improvviso di Ciro D’Emilio con una straordinaria Anna Foglietta. Uno spaccato di realtà intenso, di formazione, amaro, che non fa davvero sconti.

Le proiezioni saranno aperte a tutti, dunque non solo agli studenti, con l’unica differenza che nei cinema ci sarà un biglietto di ingresso, mentre nel cortile del liceo gli spettacoli saranno a ingresso libero.

Una distinzione minima, dato che il biglietto che gli esercenti hanno accettato di fare (flat, uguale per tutti) è di soli 3 €. Ma è giusto, riteniamo, distinguere tra la proiezione di qualità professionale delle sale cinematografiche e quella della scuola, non in DCP (il formato dei film per i cinema).

Quest’anno hanno accettato di collaborare il Politeama, con una delle sue tre sale in centro città, di cui una davvero imponente con i suoi 900 posti, e il Jolly di S. Nicolò, gloriosa monosala Fice. Il primo appuntamento è previsto mercoledì 15 maggio con la proiezione di Alt-Right: Age of Rage che vede protagonista l’estrema destra americana contemporanea. Proseguiamo nei mercoledì di fine maggio nei cinema, mentre gli altri titoli saranno proiettati nel cortile del Liceo Gioia nei martedì e giovedì di giugno, fino al 18, data della proiezione di Un giorno all’improvviso, vera anteprima dell’Arena Daturi, che curiamo con Arci Piacenza.

Tutti gli spettacoli saranno introdotti al pubblico da brevi presentazioni a cura di studenti delle scuole superiori e di giovani componenti dell’associazione Cinemaniaci. L’iniziativa vede la media partnership di Editoriale Libertà con giornale, tv e web.

Il programma completo è disponibile sul sito web cinemaniaci.org con sinossi, foto e trailer dei film.

Ennesimo Contest

CONTEST

di Ennesimo Film Festival

Ennesimo Film Festival e Scarabeo Entertainment
lanciano Ennesimo Contest

3mila euro in palio 

Dopo il successo dell’Ennesima Borsa di Studio che ha portato alla produzione del cortometraggio Salse Connection girato da Francesco Barozzi e Natalia Guerrieri alle Salse di Nirano, Ennesimo Film Festival torna al fianco degli autori under 35 con un nuovo contest insieme a Scarabeo Entertainment che ne ha sostenuto idea e montepremi.

Sceneggiatori, registi e case di produzione potranno infatti partecipare da oggi fino al 15 luglio all’Ennesimo Contest realizzato da Ennesimo Film Festival e Scarabeo Entertainment. I partecipanti dovranno inviare la propria idea per girare un video promozionale della durata massima di 60 secondi del Museo Bertozzi e Casoni di Sassuolo (Mo). Il Museo, situato all’interno della Cavallerizza Ducale restaurata grazie all’intervento di Franco Stefani e dello Studio Pincelli, è la prima mostra permanente d’arte contemporanea dedicata alla ceramica. All’interno sono infatti raccolte le opere di Bertozzi e Casoni che dagli anni Ottanta utilizzano la ceramica come esclusivo mezzo espressivo a fini scultorei arrivando ad esporre in musei e gallerie.

«Siamo molto contenti della collaborazione intrapresa con Scarabeo Entertainment che ha dato vita a questo nuovo contest – spiegano Federico Ferrari e Mirco Marmiroli, organizzatori dell’Ennesimo Film Festival – che darà l’opportunità a un giovane sceneggiatore o regista di poter vincere il premio in palio di 3000 euro per continuare a coltivare la propria passione. Il Contest si inserisce appieno nelle attività che stiamo portando avanti in questi anni che mirano alla promozione del territorio e alla creazione di nuove opportunità di crescita per l’intera comunità. Dopo aver reso possibile la produzione del primo cortometraggio girato a Fiorano Modenese, questo Contest contribuisce a provare a rendere il nostro territorio appetibile anche per nuove imprenditorialità, tra cui appunto la produzione cinematografica».

«Nuove collaborazioni, nuove partnership locali dal respiro internazionale. È questo lo spirito e l’approccio che come Direzione Artistica desidero portare avanti con il team Scarabeo Entertainment – spiega Alessandra Stefani Founder & Art Director Scarabeo Entertainment srl – che ci vede impegnati in diversi progetti culturali e artistici. L’energia impiegata è sostanziosa, vorticosa e collaborativa. Nuove idee prendono vita ogni giorno, lieti di poter premiare il vincitore di Ennesimo Contest nella cornice della 3 giorni del Festival della Filosofia durante i quali il Museo esporrà un’opera d’arte dirompente, ad oggi top secret al pubblico, degli artisti Bertozzi e Casoni».

La partecipazione al Contest è gratuita e ogni autore potrà presentare più di un’idea. Saranno ammesse soltanto idee originali scritte in lingua italiana o inglese. Il vincitore, che sarà scelto da una Giuria costituita da Scarabeo Entertainment, dovrà realizzare il video promozionale entro il 10 settembre 2019.

Info, bando e regolamento su contest.ennesimofilmfestival.com